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30/11/24 ore

Referendum, #giustiziagiusta con l’abolizione dell’ergastolo


  • Francesca Pisano

Col referendum sull’abolizione dell’ergastolo i Radicali propongono ai cittadini di abrogare questo tipo di condanna dal Codice penale italiano. Oggetto del quesito sono gli articoli numero 17, limitatamente al punto 2), con l’eliminazione dell’ergastolo dall’elenco delle pene stabilite per i delitti e il numero 22 che lo disciplina specificatamente.

 

La motivazione addotta a sostegno del referendum richiama in primis il dettato costituzionale. La nostra carta fondamentale sancisce infatti che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. In questo principio si evidenzia la “clamorosa contraddizione con il carcere a vita e il “fine pena mai”, dichiarano i sostenitori del referendum.

 

Una pena che non lascia scampo, se pure non si manifesta nella condanna a morte, non prevista dal nostro ordinamento, coincide comunque con il concetto di vendetta sociale. Escludere per sempre il recupero e la capacità di rinnovo della persona, rispetto a un nuovo approccio alla vita e ai rapporti con gli altri, vorrebbe dire il fallimento di tutta la società, anche di quella fetta “buona”, nella misura in cui risulta incapace di trovare attraverso le leggi, la giurisprudenza, le pene previste dall’ordinamento, la possibilità del riscatto di quell’individuo e, conseguentemente, di se stessa.

 

Secondo un approccio più scientifico a questo discorso, è opportuno considerare quanto sostiene a riguardo Umberto Veronesi. L’ergastolo è infatti da lui considerato una pratica “antiscientifica” in quanto nel cervello umano “il sistema di neuroni non è fisso e immutabile, ma plastico e capace di rinnovarsi”. La persona che ha commesso il reato può quindi nel tempo diventare una persona diversa rispetto a quando è stata condannata, in quanto “il nostro cervello non è uguale a quello che era nei decenni precedenti”. Sulla base del rinnovo che avviene nella mente umana, può avvenire quindi anche il cambiamento del sistema giuridico di una società come la nostra.

 

Il referendum radicale sull’ergastolo era già stato proposto agli italiani nel 1981, ma in quell’occasione non fu il Sì a vincere. Il Paese viveva ancora gli anni di piombo e la strage dell’uomo contro l’altro, contro la gente indiscriminata e innocente, era una pratica frequente e inaspettatamente folle.

 

Forse oggi, dopo oltre trent’anni, vale la pena di pensare che qualcosa sia cambiato, vale la pena di credere che le leggi non possano restare le stesse e che si debba tendere coscientemente verso una diversa civiltà. C’è una nuova responsabilità che incombe su noi cittadini ed è quella di credere che bisogna iniziare a gettare le basi del cambiamento, un’evoluzione dei concetti di pena e di colpevole sui quali riflettere. Chi, più della gente, attraverso la risposta al quesito referendario, può far sapere, comunicare, se una nuova esigenza è nata nell’elaborazione del “senso di umanità” di cui parla la Costituzione. A chi, più legittimamente, se non ai cittadini, spetta il diritto di riflettere attraverso il referendum?

 

In Europa Paesi come la Norvegia o il Portogallo non prevedono l’applicazione di questo tipo di pena nei confronti dei “loro colpevoli”. E quindi, sentirsi parte di questo contesto extra i confini nazionali, può voler dire anche guardare ad altri modelli non tanto lontani da noi, non tanto diversi dalla nostra cultura. Più vicino a casa nostra, lo stesso Papa Francesco ha segnato un nuovo inizio nel sistema penitenziario dello Stato Vaticano attraverso l’abolizione motu proprio della pena perpetua dell’ergastolo.

 

In ambito europeo, inoltre, è fondamentale considerare che proprio lo scorso 9 luglio, la Corte europea dei diritti dell’uomo, in risposta a ricorsi presentati da tre detenuti britannici, ha dichiarato che l’ergastolo inteso come detenzione in carcere senza possibilità di revisione della pena, senza possibilità di scarcerazione o di liberazione anticipata, rappresenta un trattamento “inumano e degradante” contro il prigioniero, in quanto viola l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.


 

 

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