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04/12/24 ore

H.R. Giger R – Rated: in mostra a Roma le fantasmagorie geniali dell’ultimo surrealista



di Gianni Carbotti

 

“È evidente che oggi gli uomini non sono più la cosa di maggior importanza nell'universo. Questo è qualcosa che gli umanisti devono ancora accettare” Robert Pepperell, “The Posthuman Manifesto”

 

Quando si affianca alla qualifica di “artista” l’aggettivo “visionario” bisogna avere piena consapevolezza del significato originario di questa parola, delle implicazioni più profonde che essa comprende.

 

Come termine infatti è spesso utilizzato nelle sue connotazioni più negative, associato a distorsioni della psiche, ad atteggiamenti paranoici che pure sono peculiari degli stati di esaltazione mistica più elevati e ne costituiscono anzi i connotati specifici…in realtà dal punto di vista strettamente etimologico sta ad indicare qualcuno che abbia visioni preternaturali, il cui sguardo contempla dimensioni inesplorate dell’essere, facendosi così intermediario tra il mondo reale e quello che si cela al di là del sensibile.

 

E forse nessuno come Hans Rudolf Giger, celebre al grande pubblico con il nome d’arte contratto di H.R. Giger, merita ai giorni nostri, mentre il secolo XXI° preconizzato se non anticipato dai suoi panorami inquietanti, dalle sue profezie visuali d’un mondo ossessivamente straniante, sensuale e profondamente malvagio, si dispiega, merita la qualifica di visionario par excellencFormatosi alla Scuola d’Architettura e Design industriale a Zurigo ma partecipe di influenze disparate che spaziano dall’opera dei grandi simbolisti come Arnold Böcklin a surrealisti come Max Ernst ed Hans Bellmer, con un’attenzione per certe influenze strettamente mitteleuropee come l’austriaco Kubin con i suoi paesaggi spettrali, dotato d’un occhio onniveggente alla Hieronymus Bosch in grado di penetrare il velo tra piani di esistenza paralleli, H.R. Giger è riuscito nell’arco della sua carriera, spaziando dal punto di vista tecnico dalla pittura ad olio all’aerografo, dalla china a forme propriamente tridimensionali, a realizzare un corpus impressionante di opere profondamente freudiane ed influenzate per sua stessa ammissione dalle proprie visioni oniriche, in cui temi archetipici come sessualità, nascita, morte si compenetrano, prendono forma in anatomie tormentate e disturbanti, in un connubio tra carne e metallo - i famosi “biomeccanoidi”, in seguito diventati imprescindibili in un certo tipo di sottocultura underground.

 

 

Ad un esame approfondito si può dire che Giger abbia strutturato tutto il suo lavoro come un vero e proprio universo alternativo, una dimensione mentale resa concreta nelle sue opere – ed è sotto questo aspetto che vanno inquadrate fin dall’inizio della sua carriera le importanti incursioni nella scultura, frutto dell’impellente necessità di sviluppare gli elementi fondamentali della sua visione artistica in una dimensione tangibile.

 

 

Ci sembra allora superfluo, quasi retorico, parlando del grande pittore, scultore, designer e scenografo svizzero scomparso nel 2014 a seguito d’una banale caduta dalle scale, ridurre l’impatto del suo lavoro sull’immaginario contemporaneo alla famosa collaborazione con Ridley Scott per la saga cinematografica di “Alien”, che pure gli valse il premio Oscar e royalties tali da consentirgli la libertà di rinchiudersi in contemplazione nel mondo onirico e oscuro da cui traeva materiale per le sue creazioni: in realtà si può dire che Giger, definito dall’amico Salvador Dalìil più grande surrealista vivente” (dopo sé stesso ovviamente!) abbia contribuito come pochi a definire l’estetica del presente, plasmando configurazioni mitiche che continuano a distendere la propria silhouette ineffabile non solo nell’ambito ristretto dell’arte contemporanea (che nel suo snobismo intrinseco, nella sua mancanza di visione prospettica l’ha piuttosto relegato in una dimensione minore - dell’eccentrico o del bizzarro, per quanto d’autore, e del tutto insufficiente a definirne la poetica) ma nei settori più diversi della cultura e delle forme espressive dei tempi che viviamo oltre lo stesso cinema: dalla musica rock - indimenticabili le copertine realizzate per album di musicisti come Emerson, Lake & Palmer, Debbie Harry, Dead Kennedys - alla moda provocatoria di stilisti come Alexander McQueen, dalla letteratura più radicale erede della sperimentazioni della Beat Generation e culminata nell’urlo di rivolta Cyberpunk alle teorizzazioni filosofiche del Postumanesimo.

 

 

Se pensiamo infine alle ricerche e gli sviluppi più recenti in varie branche scientifiche (dall’uso di protesi biomeccaniche allo sviluppo di esoscheletri per scopi militari o civili, alle sperimentazioni nel campo della realtà aumentata e delle connessioni neurali) ci rendiamo conto che i gloriosi corpi-macchina rappresentati dall’artista, distopicamente raggelanti ma anche rassicuranti, in qualche modo ormai familiari, sono vere e proprie metafore d’una deriva mutante che è già parte della nostra civiltà, la accompagnano per mano piuttosto che anticiparla.

 

 

Dopotutto, da cosa si dovrebbe misurare la grandezza d’un artista se non dall’influenza che esercita sulla sua epoca, dalla sua capacità di ridisegnarne l’apparato simbolico?

 

Così, intenti in queste meditazioni, varchiamo finalmente la porta della casa d’arte Artribù, al quinto piano d’un palazzo signorile in stile umbertino a poca distanza dalla Stazione Termini, che proprio in questi giorni ospita una rara e preziosa retrospettiva su Giger, realizzata in collaborazione con il Museo a lui dedicato in Svizzera e con il coinvolgimento personale di Carmen Maria Scheifele Giger, vedova dell’artista.

 

 

La mostra curata da Claudio Proietti fondatore della galleria, concepita più come un salotto culturale esclusivo, riservato a un pubblico specifico di collezionisti ed appassionati interessati ad opere di grandi maestri con cui la casa stessa ha rapporti diretti, propone una panoramica accuratamente selezionata della sua produzione.

 


 

Così ci ritroviamo faccia a faccia con alcune creazioni in qualche modo ormai parte dell’inconscio collettivo come i dipinti “Erotomechanics” in cui anatomie come lamiere contorte e sofferenti si piegano ad amplessi innaturali o il “Bulletboy”, il bambino atomico, feto proiettile realizzato in bronzo con cui Giger da corpo alla sua sfiducia in un futuro negato, segnato da sconvolgimenti termonucleari di là da venire, ed alla sua fobica ansietà nei confronti della riproduzione - di per sé un atto sconvolgente in una realtà apocalittica che non ha più niente d’umano.

 

 

Le grandi tavole aerografate, i disegni, le sculture di metallo e gli stampi originali in nero poliestere esposti si fondono qui in un ambiente totale che riproduce in parte quelli dello Château St. Germain di Gruyères, dove il Maestro negli ultimi anni aveva accumulato gran parte delle sue opere ricercandole e ricomprandole laddove necessario per tenersele vicino, trascorrendo ore negli ambienti poco illuminati del castello dalle finestre e pareti tinteggiate di nero, ritagliandosi una notte artificiale – come direbbe Shakespeare - dove rimanere solo con i suoi sogni, i suoi incubi, le sue visioni d’altrove.

 

 

Siamo rimasti particolarmente colpiti dalla sala in cui, tra le massicce riproduzioni in vetroresina d’una macchina compattatrice rinominate “Passages” (Passaggi), identificate da Giger come sorta di congegni vaginali à rebours, ingressi verso quel mondo onirico a cui anelava sempre più di tornare e dove le sue fantasmagorie erano concepite, spicca la scultura denominata “Guardian Angel”, l’angelo custode realizzato dalla fusione delle fattezze di sua moglie con un sassofono alato, ricordo della sua passione per la musica jazz e rappresentazione ideale del suo sé superiore, in bilico tra le dottrine esoteriche di Aleister Crowley e la psicologia del profondo teorizzata da Carl Gustav Jung (anche lui, forse non a caso, svizzero).

 

 

E se queste ed altre sulfuree meraviglie possono essere ammirate anche nell’ultimo, sontuoso libro monografico su H.R. Giger edito da Taschen in edizione speciale e in quest’occasione presentato da Artribù in anteprima mondiale, destinato a diventare una costosa assoluta rarità come quelli precedenti dedicati ad artisti come Helmut Newton, Jeanne-Claude Christo, Ai Weiwei, Nobuyoshi Araki, Georg Baselitz, David Hockney, Dennis Hopper, Jeff Koons, Pierre & Gilles, è quando ci troviamo di fronte alla monumentale Harkonnen Chair, l’originale seduta creata per la versione cinematografica mai realizzata di “Dune” ad opera di Alejandro Jodorowsky, che ci rendiamo conto di quanto profondamente questo artista sia parte di noi stessi, quanto sia possente l’influenza della sua arte sulle nostre fantasie, sulle prospettive sulfuree ed accattivanti al tempo stesso che appartengono a tutti noi e qui si manifestano concretizzate, finalmente palpabili.

 

 

Otteniamo dal gentilissimo Claudio, che ci ha accompagnati in questo percorso con grande disponibilità, il permesso di sederci per un attimo sul trono oscuro già appartenuto al genio svizzero ed è proprio in questo momento che ci sentiamo di omaggiare il ricordo di H.R. Giger con una citazione da un’altra opera cinematografica indimenticabile ed immaginifica, “Videodrome” di David Cronenberg, chiudendo gli occhi per un attimo e declamando mentalmente in suo onore il motto, pronunciato nel finale del film dal protagonista Max Renn/James Woods: “Gloria e vita alla nuova carne!”.

 

La mostra già prorogata per via del grande successo di pubblico sarà visitabile, su appuntamento, fino al 21 marzo prossimo. Visitatela se potete, le strutture subcoscienti più sinistre e remote che sorreggono la vostra scialba quotidianità ne saranno rinfrancate, forse sconcertate, certamente ispirate.

 

 

(foto di Benjie Basili Morris)

 

 


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