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03/12/24 ore

Putin e Assad: I russi e i massacri in Siria. È come una nuova Cecenia



di Bernard-Henri Lévy (da corriere.it)

 

Bisogna fermare il massacro di Aleppo. Bisogna arrestare ad ogni costo i bombardamenti massicci, sconsiderati, indiscriminati (o, peggio, «discriminati», poiché prendono di mira principalmente i civili, i convogli umanitari e gli ospedali) che sono ricominciati ancora più intensi ad Aleppo. Nei giorni — o piuttosto nelle ore e quasi nei minuti che seguono — bisogna dire basta al diluvio di fuoco, di bombe a grappolo e al fosforo, ai barili di cloro sganciati a bassa quota sugli ultimi quartieri orientali della città controllati dai ribelli.

 

Bisogna esprimere, e udire, la collera di uomini e donne liberi, la loro nausea di fronte alle immagini, riprese dai rari testimoni ancora sul posto, di bambini con i corpi devastati e ustionati; di feriti amputati, per mancanza di farmaci, da chirurghi ridotti allo stremo e anche loro massacrati; di donne falciate da una bomba mentre — come a Sarajevo ventitré anni fa — facevano la coda per comprare yogurt; di volontari che scavano fra le rovine alla ricerca di sopravvissuti, e colpiti a loro volta; di persone ormai prive di forza, sopravvissute fra immondizie e rifiuti, che dicono addio alla vita.

 

Bisogna spegnere le colonne di fuoco e di fumo. Dissolvere le nuvole di gas infiammabile sprigionato dalle nuove armi, diabolicamente sofisticate, di cui si servono gli assassini.Bisogna farlo, poiché possiamo farlo. Lo possiamo perché i colpevoli di questa carneficina cui si aggiunge un urbanicidio; i colpevoli dei crimini di guerra su vasta scala, e dell’assassinio di una città che fu la seconda della Siria, la più cosmopolita e la più meravigliosamente viva; i colpevoli dei probabili crimini contro l’umanità e della distruzione di una grande città iscritta nel patrimonio mondiale dell’umanità, sono chiaramente identificati; e del resto essi stessi non fanno nulla per nascondersi.

 

Parliamo beninteso del regime di Damasco, che da un bel pezzo avremmo dovuto cominciare a trattare come a suo tempo avevamo trattato quello di Gheddafi. Ma anche dei suoi padrini iraniani e soprattutto russi che, da cinque anni, hanno sistematicamente bloccato ogni velleità di risoluzione proveniente dalle Nazioni Unite; e che con i loro aerei, in un certo numero di circostanze debitamente documentate, hanno partecipato in maniera diretta alla guerra massiccia contro i civili; e che sembrano sempre più chiaramente decisi ad applicare alla Siria la parola d’ordine sperimentata in Cecenia, quella di «dare la caccia fin nei cessi» a coloro che il ministro Lavrov chiama di nuovo terroristi.

 

A partire da questo, il dilemma è semplice. Considerando la posizione che gli Stati Uniti assunsero tre anni fa, quando il presidente Barack Obama scelse misteriosamente di non sanzionare il superamento, da parte di Bashar al-Assad, della «linea rossa», che pure egli stesso aveva tracciato e che proibiva il ricorso alle armi chimiche, c’è da temere che il dilemma si imponga soprattutto, per non dire soltanto, all’Europa.

 

O noi decidiamo di agire; di definire a nostra volta una linea rossa prevedendo, in caso venga oltrepassata, un aggravamento delle sanzioni contro una Russia ritenuta direttamente responsabile dei crimini commessi dal suo vassallo siriano. E prendiamo al più presto l’iniziativa di avviare un negoziato e di fare pressione ispirandoci al «formato normanno» — che il presidente Hollande e la cancelliera Merkel inventarono, tre anni fa, per limitare la guerra in Ucraina e che, di fatto, riuscì a limitarla — costringendo così l’aggressore a venire a patti.

 

Oppure non facciamo nulla; accettiamo, come nel paragone che ha fatto l’ambasciatore di Francia all’Onu, François Delattre, una nuova Sarajevo; ci assumiamo il rischio di una Guernica araba con squadriglie russe nel ruolo, secondo le debite proporzioni, della legione Condor tedesca nel cielo della Spagna repubblicana nel 1936. E allora, a dir poco, perderemo l’onore: secondo una celebre formula, non solo avremo scelto il disonore, ma la crescita fino all’estremo di tutti i pericoli del momento, a cominciare da quello di un drammatico ingrossamento del fiume di rifugiati di cui non si ricorda mai abbastanza che provengono, soprattutto, dalla Siria e che sono il risultato diretto del non-intervento del mondo in una guerra totale, senza precedenti da lungo tempo, e che offende la coscienza.

 

Siamo a questo punto. Aleppo assediata, stremata, che non si arrende e muore in piedi. Aleppo sfinita, oltraggiata, costretta a battersi e che dispera di suscitare la compassione del mondo. Aleppo, la nostra vergogna, il nostro crimine per rinuncia, la nostra umiliazione davanti alla forza bruta, il nostro consenso al peggio.

 

Aleppo che non chiama più. Aleppo che muore e ci maledice. E una Europa in prima linea che, fosse solo a causa, ripeto, della pressione alla sue frontiere di un popolo che non è stata capace di proteggere e che le chiederà di accoglierlo, si gioca ora il proprio avvenire e una parte della propria identità.Sarà, Aleppo, la sua agonia? O riuscirà invece a riprendersi, a risollevarsi e a qualificarsi? Anche questo è il dilemma.

 

 (traduzione di Daniela Maggioni)

 

da Corriere della Sera (martedì 27 settembre 2016)

 

 


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