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30/11/24 ore

Usa a un anno dal voto midterm: elezioni dividono democratici e repubblicani



di Stefano Graziosi *

(da Affari Internazionali)

 

Dalla riforma fiscale allo scandalo Russiagate: sono molti i fronti su cui Donald Trump sta combattendo, a un anno quasi esatto dalla sua elezione, l’8 novembre 2016. Il presidente, appena partito per una lunga missione asiatica, si ritrova assediato all’interno del suo stesso partito. E per questo, almeno su alcune questioni, sembra sempre più pronto ad intraprendere timide aperture verso l’opposizione democratica.

 

La situazione resta comunque molto irrequieta. Anche perché il prossimo appuntamento elettorale importante si avvicina sempre più. Il 6 novembre 2018, si terranno infatti le elezioni di medio termine: un momento in cui si rinnoverà la totalità della Camera e circa un terzo del Senato; un momento che ha già iniziato a pesare nel dibattito pubblico statunitense; e che sta già dividendo in maniera piuttosto accesa tanto i democratici quanto i repubblicani.

 

Democratici tra centristi e ‘sanderisti’


Dalle parti dell’Asinello, la fibrillazione è particolarmente alta. La compagine risulta dilaniata da tempo tra la corrente moderata e quella radicale. La sinistra di Bernie Sanders cercherà in ogni modo di piazzare i propri candidati per cercare di aumentare la sua influenza, mentre i centristi faranno di tutto per serrare i ranghi ed evitare che il partito possa spostarsi su posizioni considerate estremiste.

 

Tuttavia, la sfida più interessante riguarda stavolta proprio i repubblicani. Perché l’esito delle prossime elezioni avrà prevedibilmente ripercussioni profonde sulla stessa presidenza Trump. Partiamo da un fatto: il candidato radicale, Roy Moore, ha vinto le primarie repubblicane per il seggio senatoriale dell’Alabama.

 

È una figura controversa, tendenzialmente in linea con l’ideologia trumpista prima maniera (si pensi solo che, per le sue posizioni oltranziste, è soprannominato l’Ayatollah dell’Alabama): una figura che non era tuttavia riuscita, paradossalmente, ad ottenere l’endorsement del presidente. Per cercare di ricucire con l’establishment del suo partito, Trump aveva infatti deciso di puntare sul candidato moderato e istituzionale, Luther Strange. Ma ha sbagliato i suoi calcoli. Pesantemente.

 

I repubblicani in preda al panico

La vittoria di Moore ha così gettato nel panico le alte sfere dell’Elefantino. Nella fattispecie, è stato proprio il leader della maggioranza al Senato, Mitch McConnell, a farne le spese maggiori, attirandosi critiche e inviti alle dimissioni. Il tutto, mentre questo evento ha rafforzato la nutrita frotta dei trumpisti ortodossi, che sperano adesso in una decisa riscossa. Sembrerebbe addirittura che lo stesso Steve Bannon, il consigliere strategico ‘cacciato’ dalla Casa Bianca, stia lavorando attivamente per presentare candidati radicali, con l’obiettivo di scalzare tutti i senatori repubblicani in cerca di riconferma nel 2018 (eccezion fatta per l’ultraconservatore texano Ted Cruz).

 

Tutto con il preciso fine di dare la scalata al Partito repubblicano. L’idea sarebbe infatti quella di aumentare il numero di trumpisti ortodossi al Congresso: anche perché, dalle parti di Breitbart, il sito di Bannon, nessuno ha granché apprezzato le recenti svolte ‘moderate’ del presidente e il processo di ‘normalizzazione’ a cui è stato sottoposto dalle aree più tradizionali dell’Elefantino (soprattutto in materia di rapporti con la Russia).

 

D’altronde, un piccolo terremoto si è già verificato in seno al partito. I senatori centristi Bob Corker e Jeff Flake (storici avversari del magnate) hanno recentemente annunciato che non si ricandideranno l’anno prossimo alla Camera alta. Una notizia che favorisce inevitabilmente i radicali. Si prenda il caso di Flake: con la sua uscita di scena, la candidata repubblicana più forte per arrivare al seggio senatoriale dell’Arizona è adesso l’ultraconservatrice Kelly Ward, trumpista di ferro e finanziata dal controverso miliardario Bob Mercer (già noto per le sue vicinanze a Breitbart e per aver foraggiato la campagna presidenziale dello stesso Trump).

 

Un Partito sempre più nervoso


Alla luce di tutto questo, non è allora strano che il Partito repubblicano mostri segni di sempre maggiore nervosismo. A metà ottobre, l’ex presidente George W. Bush ha, per esempio, attaccato frontalmente vari punti del programma politico di Trump (dall’immigrazione all’economia). Davanti a queste accuse, non si è fatta attendere la piccata reazione di Bannon, che ha tacciato Bush di essere stato il peggior presidente della Storia americana: un battibecco che evidenzia come le faide in seno al Grand Old Party si rivelino più vive che mai.

 

E Trump rischia così di rimanere attanagliato nello scontro tra l’establishment e un redivivo Tea Party, fatto di ultrà vicini all’estrema destra. Il presidente dovrà quindi mostrare molta abilità diplomatica per districarsi all’interno di questo marasma. Il problema è che gli equilibrismi non sembrano proprio il suo forte. Almeno sino ad oggi.

 

Gli occhi sono così sempre più puntati sul 2018. Una data dirimente, per motivi di carattere strategico. Soprattutto per i nemici repubblicani di Trump, che potrebbero utilizzare un eventuale cattivo risultato come pretesto per contestargli la leadership del partito e la stessa Casa Bianca.

 

Certo: bisogna tener conto di due fattori. In primo luogo, è bene sottolineare l’estrema debolezza in cui attualmente versano i democratici: ragion per cui, è abbastanza difficile che l’Asinello possa rivelarsi in grado di conquistare anche solo una delle due Camere. In secondo luogo, non dimentichiamo che, generalmente, i presidenti in carica perdono le elezioni di medio termine: è successo a Barack Obama, George W. Bush, Bill Clinton e Ronald Reagan. L’eventualità di una sconfitta non dovrebbe quindi determinare chissà quali implicazioni.

 

Il caso Trump diverso da quelli dei suoi predecessori


Eppure, bisogna fare attenzione. Perché Trump rappresenta un caso a sé. E l’ostilità interna all’Elefantino nei suoi confronti è troppo alta per ritenere che non vi sarebbero conseguenze, qualora l’anno prossimo si dovesse registrare una sconfitta. Non è un mistero, d’altronde, che alcuni personaggi di spicco del Partito repubblicano stiano scalpitando in attesa di scendere in campo per le primarie del 2020. Nella fattispecie, i senatori Marco Rubio e Ted Cruz non avrebbero digerito la sconfitta subìta lo scorso anno. E sarebbero pronti a vendicarsi alla prima occasione buona. Un’occasione che le elezioni di medio termine potrebbero offrire.

 

Del resto, per quanto raramente, è già successo che a un presidente in cerca di rielezione fosse contestata la nomination del suo stesso partito. Accadde nel 1976, quando Ronald Reagan sfidò duramente Gerald Ford. Mentre, nel 1980, fu Ted Kennedy a candidarsi contro il presidente Jimmy Carter alle primarie democratiche.

 

È quindi altamente probabile che, tra tre anni, svariati repubblicani cercheranno di eliminare Trump, per impedirgli di ripresentarsi nella corsa verso la Casa Bianca. Una situazione che potrebbe indebolire non poco il Grand Old Party, determinando confusione interna e il riesplodere di dissidi solo apparentemente sopiti.

 

da affarinternazionali.it

 

* Stefano Graziosi, laureato in Filosofia politica all’Università Cattolica di Milano, scrive di Esteri su diverse testate ( Lettera43, La Verità, Gli Stati Generali). Twitter: @stegraziosi

 

 


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