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28/11/24 ore

PD, partecipazione e forma partito: un processo incompiuto


  • Antonio Marulo

“Il PD ha la sua forza nella partecipazione, sia nei circoli che alle primarie”

 

Nel leggere questa frase, che dava il titolo a una e-news di Matteo Renzi del 22 febbraio 2017, qualcuno potrebbe farsi un’idea errata di ciò che il Pd è stato in questi anni. Giuliano Ferrara, su Quaderni Radicali 109 – speciale agosto 2013, ebbe il piacere di sottolineare quanto l’ex rottamatore fosse “a suo modo un clone di Berlusconi” che ha puntato su se stesso, sulla “leadership personale, lo staff al posto del partito...”. Un partito il cui principio cooptativo − secondo Fabrizio Barca, intervistato un anno fa dal Fatto quotidiano − è la fedeltà. Ma ciò fin “da quando è nato nel 2007” per opera e virtù di Walter Veltroni.

 

Il progetto di partenza non era da disprezzare; poi, dalla teoria alla pratica, più di qualcosa è andata storta: il Pd − per stessa ammissione del suo fondatore − “ha mostrato di essere molto lontano dall’idea di partito aperto, riformista e non correntizio...”. Per questo – parafrasando la e-news su citata –, più che la forza, è pertinente richiamare la debolezza nella partecipazione, che i numeri in progressivo e costante calo ci offrono..., con le primarie all’italiana che restano solo uno strumento di legittimazione politica della leadership, seppur in grado ancora “di mobilitare una fettanon trascurabile di elettori democratici”.

 

Nella mozione Renzi, in vista delle recenti Primarie e del congresso, si è scommesso − come sintetizzava Andrea Romano − “sul superamento della dicotomia tra partito leggero e partito pesante... Per guardare alla costruzione di un partito pensante che sia finalmente in grado di formare classi dirigenti a tutti i livelli, rivitalizzare la funzione dei circoli territoriali con compiti di organizzazione delle comunità locali, valorizzare in modi continuativi la comunità dei cittadini che partecipano alle primarie”. Ciò vuol dire che fin qui − per l’appunto − non ci si è mossi in tal senso, deludendo le aspettative anche di quanti hanno con un entusiasmo e passione iniziato a fare politica attiva come “nativi del Pd”.

 

È il caso di Alberto Bitonti, che da giovane segretario del circolo Pd di Trastevere a Roma ha avuto la possibilità di confron- tarsi dall’interno con questa realtà, toccando con mano, tra luci e ombre, un processo incompiuto − forse mai iniziato − nel quale non poche occasioni si sono perse, a partire proprio dalla realtà disastrata nelle Capitale, dove il commissario Orfini non ha brillato...

 


 

Alberto, cosa non ha funzionato a Roma?

 

Matteo Orfini come commissario a Roma aveva una grandissima occasione che gli derivava dall’avere il potere assoluto per togliere di mezzo ciò che c’era di sbagliato nel partito romano, mettendo fine a problemi ereditati da decenni. Con lo studio scientifico sui circoli commissionato a Fabrizio Barca si avevano a disposizione indicatori oggettivi su cui basarsi per estirpare le de- generazioni, il potere nepotista e clientelare, il correntismo esasperato che pervade il partito al di là del merito e delle competenze. Purtroppo quella di Orfini è stata un’esperienza deludente, perché...

 

 

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