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02/12/24 ore

Enrico Letta-pensiero sui temi di stretta attualità. 9 anni fa!



Si dice Enrico Letta, si scrive Sinistra democristiana, Beniamino Andreatta, Arel, Romano Prodi, Commissione Trilaterale, Aspen Istitute, “Zio Gianni”. Sono queste infatti le parole chiave - i tag – da ricercare per saperne di più dell’ex enfant prodige della politica italiana che ha il difficile incarico di formare un governo "di servizio" ed evitare lo scioglimento delle Camere.

 

Nell'autunno del 2004 Quaderni Radicali lo intervistò sui i temi di strettissima attualità di allora: Spesa pubblica, tasse, art. 18, Concertazione, Alitalia,  Fiat. Praticamente, a parte ill contesto storico ma di fatto con gli stessi protagonisti, i medesimi di oggi, a conferma che in Italia poco o nulla è cambiato.

 

Qui di seguito riproponiamo l’intervista tratta dal n. 88 di Quaderni Radicali, Novembre/dicembre 2004

 


 

CHI AVRA' IL CORAGGIO DI TAGLIARE LA SPESA PUBBLICA?

 

Enrico Letta

Intervistato da Antonio Marulo e Luigi O. Rintallo

 

Gli italiani sono diventati un popolo di contribuenti modello che a sol sentir parlare di tagli fiscali inorridisce. Vincino sul «Foglio» del 20 novembre descriveva con una vignetta la grottesca posizione dell’italiano “medio” che grida: “Orribile! Ci vuole tagliare le tasse! Noooo non farlo”. Berlusconi s’è così scoperto solo a difendere la sua solenne promessa elettorale. Sondaggi sconsolanti alla mano, è giunto a minacciare le elezioni anticipate pur di avviare l’abbassamento dell’IRE (ex Irpef). Di alcune decine d’euro per contribuente si tratta. Poca cosa, ma forse quanto basta per salvare almeno la faccia, in questi anni compromessa da una politica economica che non è riuscita, come auspicato, a ridurre carico fiscale e spesa pubblica.

 

Tutta colpa della congiuntura economica? Anche. Ma soprattutto colpa del partito trasversale della spesa e delle tasse, da cinquant’anni maggioranza assoluta nel nostro belpaese. L’esito del tormentone autunnale sulle tasse potrà avere il merito di spostare qualche voto, non risolverà certo i problemi economici del l’Italia. La loro risoluzione – non sarà “politicamente corretto” dirlo in tempi di pensiero unico pro tasse e spesa – va cercata nel mare magnum della spesa pubblica.

 

Il nodo sta tutto lì, irrisolto e allo stato dei fatti irrisolvibile, a causa delle resistenze di quanti, la grande maggioranza degli italiani, vive da mezzo secolo almeno di assistenzialismo. Chi avrà, allora, il coraggio di tagliare la spesa pubblica? È probabile che nella prossima legislatura la patata bollente passi nuovamente al centrosinistra.

 

L’avvocato Agnelli diceva che le grandi e scomode riforme strutturali possono essere fatte solo da sinistra. Dal ’96 al 2001 l’Ulivo ha fallito nell’intento. Per il futuro le speranze sono riposte nella cosiddetta ala riformista e riformatrice della Gad (ormai già ex), nella quale brilla la stella del giovane Enrico Letta. L’abbiamo incontrato negli uffici dell’Arel lo scorso 8 novembre, proprio nel pieno della polemica sulla politica fiscale del governo. Concertazione, fisco, welfare, questi i temi trattati. Sollecitato sul programma economico dell’Ulivo, per il quale i tempi sono fin troppo maturi, il responsabile economico della Margherita non s’è sbilanciato più di tanto.

 

Il cantiere del centro sinistra è aperto: stanno lavorando per noi. La sensazione però è che non sia stata messa nemmeno la prima pietra. Molte le differenze, ancora enorme la distanza che separa quelli come Letta dall’ala massimalista. La prova sta proprio nell’atteggiamento tenuto dall’opposizione durante la prima lettura alla Camera della legge finanziaria: il ritiro di tutti gli emendamenti, al di là della propaganda, dimostra che se la maggioranza piange l’opposizione non ride. Quale occasione migliore di quella di questo autunno per presentare e magari far passare delle proposte alternative?

 

La verità è che proposte alternative non ci sono. La grande armata brancaleone di sinistra, come quella di destra, procede in ordine sparso perché divisa e indecisa sul da farsi. Enrico Letta ci ha assicurato che il programma dell’Ulivo sarà pronto fra un anno. Nel frattempo c’è da sperare per loro che i litigi nel centrodestra non portino inopinatamente ad elezioni anticipate.

 

***

 

[A. Marulo] Luca Cordero di Montezemolo da quando s’è insediato alla presidenza di Confindustria non ha perso occasione per ribadire di essere in sintonia col Suo pensiero sui temi economici. Sarebbe interessante sapere sino a che punto lei, on. Letta, la pensa come Montezemolo, per esempio su uno dei suoi cavalli di battaglia: la concertazione.

La concertazione è stata uno dei pilastri del capitalismo delle relazioni che in Italia ha assunto – come hanno scritto Rajan e Zingales in Salvare il capitalismo dai capitalisti (libro molto apprezzato tra gli addetti ai lavori), più che in ogni altro paese, le forme di “un sistema di élite, fatto dall’élite, e per l’élite… Un esempio di come l’establishment abbia utilizzato il denaro pubblico per proteggere se stesso e le proprie posizioni in economia”….

 

La concertazione è fondamentale. Ritengo che lo sia in modo diverso dal passato, allorquando fu utilissima per uscire da una situazione di dissesto finanziario. Un paese sostanzialmente alla bancarotta, quale era il nostro, ha dovuto mettere insieme le energie per intraprendere quel percorso che l’ha poi portato dentro Maastricht e quindi in un sistema di regole che consentisse di evitare anche in futuro la bancarotta.

 

Oggi invece la concertazione ha senso se è finalizzata a un certo obiettivo. L’obiettivo attuale è la ridefinizione della missione industriale del paese. Il sistema così com’è, con i cambiamenti avvenuti nell’economia globale negli ultimi cinque anni, non può reggere la competizione con le grandi nuove potenze industriali (India, Cina, Brasile, Corea…).

 

Per questo c’è bisogno di riqualificare, di modificare, di spostare, di ristrutturare; c’è bisogno, insomma, di un forte cambio di scenario affinché la nostra industria possa avere un futuro. In questo senso la concertazione può essere utile, perché mette insieme il triplice impegno del sistema pubblico (enti locali e governo nazionale in testa), del sistema imprenditoriale; del sistema della rappresentanza sociale.

 

[A. Marulo] Non c’è il rischio che il sistema della concertazione invece che dare una spinta positiva, freni quell’azione modernizzatrice, riformatrice, necessaria per uscire dalla crisi?

 

Purtroppo vicende come quella dell’art.18 hanno dimostrato che senza la concertazione alcune riforme non si fanno o si fanno male. Di per sé l’articolo 18, nella sua tecnicalità, ha davvero poco senso, soprattutto perché prevede un meccanismo a soglia dei quindici dipendenti che è esattamente opposto a quello di cui abbiamo bisogno per spingere le imprese a crescere e adeguarsi a una dimensione globale. Tuttavia, la scelta di forzare la mano da parte della Confindustria di D’Amato e del governo fu sbagliata perché evocava scenari che, a torto o a ragione, hanno reso assolutamente impossibile portare avanti un progetto di riforme utili. Ciò che accadde allora dimostra che la politica è anche consenso, è anche spiegazione e chiarificazione delle cose che si vogliono fare.

 

Stessa cosa può dirsi sul tema delle pensioni. Senza la concertazione il governo ha fatto una riforma dando retta alla Lega e ai paletti che a suo tempo Bossi mise per salvare le pensioni d’anzianità. Il risultato è stato una riforma peggiore di qualsiasi altra che gli stessi sindacati (almeno i sindacati nella loro maggioranza riformista) sarebbero stati in grado di proporre. La soluzione dello scalone del 2008 è iniqua e per giunta poco efficace dal punto di vista dei risparmi, perché sta inducendo molti alla fuga verso la pensione.

 

[A. Marulo] In compenso c’è chi decide di restare preferendo intascare il superbonus…

 

Le cifre sulla fuga verso la pensione non sono assolutamente paragonabili a quelle sul ricorso al super bonus. 195mila sono infatti coloro che hanno scelto di andare in pensione soltanto nei primi otto mesi del 2004, mentre sono 20mila le persone che fino a questo momento hanno preferito restare incassando il bonus. La verità è che i sindacati avevano consigliato di accelerare la riforma Dini, secondo quanto previsto dal patto a fronte dei dati demografici dimostrati nel 2005. Sarebbe stato molto più utile accelerare anche pesantemente la Dini, come gli stessi sindacati avevano proposto.

 

[L. O. Rintallo] In verità non tutti i sindacati avevano auspicato l’accelerazione della Dini. C’è stato qualche sindacato che ha ripetutamente detto: le pensioni non si toccano…

 

La Cisl l’aveva suggerito, e la stessa Cgil alla fine aveva detto di passare al contributivo per tutti; il che è anche più pesante in termini di conseguenze e di risparmi…

 

[A. Marulo] Comunque quel che è sembrato finora chiaro a tutti è l’assoluta indisponibilità dei sindacati a concordare qualsiasi tipo di soluzione con Berlusconi. La linea predominante è stata finora sempre quella secondo cui con questo governo non si tratta.

 

Ma se il governo avesse fatto proprie le proposte del sindacato sarebbe stato difficile per i sindacati organizzare scioperi generali su questi argomenti.

 

[A. Marulo] È pur vero, però, che un governo, qualunque esso sia, non può farsi dettare completamente la linea dai sindacati…

 

Ad ogni modo, il vero problema è che non abbiamo risolto il problema. Quando torneremo al governo ci toccherà mettere di nuovo mano alle pensioni. Anche perché, per come la vedo io, rinviare tutto al 2008 è una follia: vuol dire fingere di fare la riforma delle pensioni.

 

[A. Marulo] Restando al tema della concertazione, Rajan e Zingales nel loro libro definiscono il capitalismo delle relazioni un sistema di “limitazione della concorrenza” in cui, fra l’altro, gli accordi tra governo, sindacati e associazioni degli imprenditori hanno avuto un ruolo fondamentale. Se questo è vero, quanto può essere conciliabile il richiamo al dialogo tra le parti sociali e la richiesta di politiche che favoriscano la concorrenza, come ha fatto ripetutamente in questi mesi il presidente della Fiat e di Confindustria?

 

Io non vedo un legame tra i due aspetti. Non vedo come la concertazione dovrebbe frenare le politiche volte a una maggiore concorrenza. Montezemolo ha chiesto, ed io condivido, sei grandi azioni per fare quelle riforme a costo zero che aprano alla concorrenza. Io le ritengo condivisibili. Il problema è che queste riforme toccano alcuni interessi che probabilmente il governo non vuol intaccare. Se vogliamo introdurre libertà vera nel nostro paese bisogna metter mano agli interessi dei sistemi delle corporazioni nel campo del lavoro, delle libere professioni… e probabilmente non c’è la voglia. Capisco che è difficile, perché anche nella scorsa legislatura ci si provò senza riuscire.

 

[A. Marulo] Lei parla giustamente della forte resistenza al cambiamento dei portatori degli interessi corporativi, che guarda caso fanno proprio capo ai Montezemolo, ai Tronchetti Provera e così via elencando, che sono poi coloro da cui dovrebbe arrivare una spinta al cambiamento…

 

È vero. Ciononostante, il fatto che Montezemolo intraprenda una battaglia di questo genere, pur rappresentando in buona parte quegli interessi che si vuole contrastare, è sintomo di gran coraggio.

 

[L. O. Rintallo] Bisogna vedere però quanta finzione ci sia in questo atteggiamento e quanto invece corrisponde a una reale volontà…

 

Dire le cose, è ovvio, è più facile che farle. Poi, però, le riforme vengono fatte da Parlamento e Governo. L’atteggiamento assunto da Montezemolo rappresenta comunque un segnale positivo.

 

[A. Marulo] Dal primo esperimento di dialogo è nato il documento “Progetto Mezzogiorno”, un documento firmato dalle associazioni padronali e dei lavoratori per rilanciare lo sviluppo nel Meridione d’Italia. Sul punto qualche esponente del Governo, mi pare Sacconi, ha parlato di un progetto di rilancio che avverrebbe quasi esclusivamente a spese dello Stato, prevedendo fiscalità di vantaggio, incentivi, fondi pubblici di garanzia e quant’altro. Lei come giudica questo documento?

 

Condivido la strada indicata in quel documento e l’idea di puntare molto sulla fiscalità di vantaggio. Credo che nel Governo ci sia stata molta irritazione rispetto a questa iniziativa. Per esempio, è giusto che le poche risorse disponibili in bilancio vengano utilizzate per la fiscalità di vantaggio e per gli incentivi alle imprese soprattutto per favorire gli investimenti nel Mezzogiorno e la competitività delle imprese. Ritengo legittimo discutere sul tema, ritengo altresì sbagliato che quei soldi possano essere ridistribuiti tra i ceti medio alti come sembra sia nell’intenzione del governo Berlusconi.

 

[A. Marulo] Il riferimento che lei ha fatto alla scelte di politica fiscale, ancora non chiarissime a onor del vero, che il Governo si appresta a fare di qui all’approvazione della finanziaria 2005 ci consente di toccare un tema cruciale di questo autunno, sul quale ogni categoria interessata ha inteso presentare proposte che vanno ovviamente in direzione della salvaguardia dei propri interessi: gli industriali chiedono tagli all’Irap, i commercianti vogliono dare più soldi alle famiglie per stimolare i consumi, i sindacati difendono gli interessi, presunti, dei propri associati…; insomma c’è chi la vuole cotta chi cruda, chi vuole stimolare i consumi chi gli investimenti. Forse però ha ragione Francesco Giavazzi quando scrive che anziché “trascorrere le settimane a dibattere di una riforma fiscale inesistente, sarebbe più produttivo rileggere l’esperienza di Margaret Thatcher e la sua azione sulla spesa, le liberalizzazioni e le privatizzazioni, piuttosto che sulle tasse”.

Il nocciolo del problema, quindi, è sempre lo stesso: la spesa pubblica. E si sa in Italia la spesa pubblica è come i fili dell’alta tensione: chi la tocca ci rimane secco…

 

Secondo me sta emergendo la totale inadeguatezza delle politiche economiche che Berlusconi sta proponendo. Punto primo, nel contratto con gli Italiani lui ha proposto una riduzione delle tasse di un certo tipo. Non ha invece mai chiarito quale tipo di riduzione di spesa ci sarebbe stata per bilanciare il calo della tasse. Punto secondo, in tre anni di governo sono aumentati contemporaneamente la pressione fiscale e il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche. Quindi, tutto è andato in direzione opposta alle promesse fatte.

 

Oggi è in atto una grande polemica mediatica attorno a una presunta riduzione delle tasse, quando invece da una parte abbiamo 7,8 miliardi di euro di nuove entrate fiscali che devono venire dalla cosiddetta manutenzione della base imponibile (concordato fiscale, revisione degli studi di settore o interventi simili); dall’altra parte c’è un’operazione da 6 miliardi di euro di riduzione fiscale che è inferiore all’aumento suddetto. Con questi sei miliardi si vorrebbe fare, poi vedremo come finirà, un intervento esclusivamente sull’Irpef che ha il sapore di una truffa mediatica. Nulla di quel che si farà avrà qualcosa in comune con il contratto con gli italiani. Il contratto con gli italiani prevede una no tax area a 11mila euro, mentre nell’ipotesi del governo la no tax area è portata a 7,5mila euro. Il contratto con gli italiani prevede il 23% di Irpef fino a 100mila euro e 33% sopra i 100mila euro, Oggi invece si sta ragionando su cifre che sono solo un decimo di quelle previste dal contratto con gli italiani.

 

[A. Marulo] È tutta colpa del governo se non si è riusciti a rispettare gli impegni?

 

Probabilmente ha pesato anche la congiuntura internazionale; ma allora non si capisce perché ci si deve imbarcare in un’operazione che ha il solo scopo di consentire di fare manifesti con cui si annuncia l’inizio della riduzione delle tasse.

 

[A. Marulo] Se fosse al governo in questo momento cosa farebbe?

 

Se fossero effettivamente disponibili sei miliardi di euro per tagliare le tasse io ridurrei l’Irpef sui redditi fino a 20mila euro, interverrei sulle tasse sul lavoro, che sono la parte su cui la competitività è in oggettiva difficoltà, ridurrei, come dice giustamente Montezemolo, l’Irap sulla ricerca in modo sostanzioso, altrimenti non avrebbe senso. In questo modo verrebbero introdotti elementi di equità per i ceti più deboli e di competitività per le imprese.

 

[A. Marulo] Acclarato e preso atto che le misure, comunque vada, si riveleranno probabilmente poco incisive, rimane sempre in piedi la questione chiave della spesa pubblica, che nessuno, arrivati al dunque, ha il coraggio di tagliare. Verrà il giorno in cui il nodo ritornerà al pettine. E quel giorno il centrosinistra potrebbe trovarsi ad essere nuovamente maggioranza di governo. A questo punto della legislatura, al di là delle critiche, per giunta abbastanza facili, all’operato del Governo, forse è venuto il momento di fare qualche proposta alternativa, di stilare un programma possibile e credibile, alla luce anche delle difficoltà che oggettivamente incontra una coalizione che sui temi cruciali come quelli dell’economia appare oggettivamente divisa. Sintomatico in tal senso pare essere il profilo basso tenuto da Prodi.

 

Il percorso è quello che ci porterà l’anno prossimo a mettere a punto il programma del 2006. Mancano 18 mesi ed io condivido la prudenza di Prodi. Ciò che va fatto oggi è dire cosa faremmo noi al posto del governo sulle cose che il governo sta facendo. Quanto al programma più complessivo ritengo sia giusto che venga elaborato da adesso in avanti e che sia pronto l’anno prossimo. Il tema chiave del programma è senza dubbio quello delle pensioni, tuttavia non credo che nel nostro paese si possa tagliare la spesa sociale. Essa va rimodulata, perché ci sono alcune voci di bilancio prive di copertura. Gli ammortizzatori sociali, ad esempio, hanno copertura soltanto per chi perde il lavoro in licenziamenti collettivi. Da questo punto di vista l’Italia è l’unico paese europeo che non offre reti di protezione individuali, tranne che per categorie quali ad esempio i giornalisti che hanno però la cassa e quindi la rete se la costruiscono in proprio.

 

[L. O. Rintallo] Fino a un certo punto se la fanno in proprio visto i grossi deficit delle casse private.

 

Il concetto è che il sistema pubblico su alcune cose non dà nulla. Sul punto io sono molto fiducioso del lavoro che faremo insieme e che porterà un elemento di chiarezza. Se non porterà elementi di chiarezza perderemo le elezioni.

 

[A. Marulo] Quindi secondo lei ci sono i margini per dialogare con l’ala estrema, massimalista, che si ritrova più o meno nel programma della Cgil e nel documento fatto pervenire lo scorso ottobre a Prodi.

 

Penso che non possiamo fare altrimenti: cercare un dialogo e un punto di sintesi…, lo faremo.

 

[L. O. Rintallo] C’è il rischio che accada come nella scorsa legislatura in cui il governo D’Alema fu di fatto bloccato dal discorso di Cofferati…

 

Sono conscio di tutte le difficoltà, ma fiducioso del fatto che nessuno può permettersi di intralciare il processo facendo il massimalista. Chi volesse far saltare tutto con il massimalismo si assume una responsabilità enorme. Basta vedere cosa ha comportato politicamente per Bertinotti lo strappo del ’98.

 

[L. O. Rintallo] A dire il vero a Bertinotti è andata piuttosto bene: ha gestito in modo astuto certe operazioni politiche del passato ed è riuscito ad aumentare i propri consensi. Così, oggi fa l’arbitro della situazione….Comunque, tornando al programma della Gad, pare che lei non voglia sbilanciarsi più di tanto. Ormai ci siamo…

 

Un anno fa avrei potuto dire qualunque cosa. Siccome adesso sta iniziando la discussione che ci terrà impegnati nei prossimi mesi, non voglio anticipare nulla.

 

[L. O. Rintallo] Forse, però, può darci un parere su una mia convinzione. Lei non ritiene che il Welfare in Italia si sia trasformato negli ultimi 20-30 anni nel luogo del rancore sociale? Nel senso che gli interventi assistenziali di aiuto hanno più che altro generato ingiustizie piuttosto che giustizie: a partire dalle pensioni d’invalidità non dovute, agli interventi per le categorie protette. Ecco, la rimodulazione di Welfare nel futuro non dovrebbe partire proprio da questo: dalla rimozione dell’idea di dare tutto a tutti senza preoccuparsi mai di chi paga?

 

La qualità del nostro welfare è frutto di un sistema che purtroppo faceva acqua da tutte le parti, che scambiava sostanzialmente la infedeltà contributiva (l’evasione, sulla quale si chiudeva un occhio) con una copertura sociale rabberciata, soprattutto in certe zone del Paese (non mi riferisco solo all’assistenzialismo; parlo del servizio pubblico, scadente, inteso in senso generale). Il tutto poi veniva bilanciato e riequilibrato con un sistema che consentiva, per esempio, di “arraffare” la casa dell’ente, la pensione di invalidità, la pensione baby e così via. Tutto questo è storia di un passato che non ci siamo completamente scrollati di dosso.

 

[L. O. Rintallo] Che ciò sia potuto accadere, oltre che alla tradizione di malaffare italiana che ci trasciniamo dall’800, lo dobbiamo forse all’influenza determinante di certa ideologia di sinistra…

 

Se posso essere sincero, penso che gran parte delle colpe ce l’abbia la Democrazia Cristiana, perché la copertura di questi meccanismi ha trovato – lo dico da ex democristiano – l’accondiscendenza democristiana insopportabile. Il mondo che faceva capo al sottobosco di governo ha vissuto all’ombra di tutti questi privilegi, a partire da vicende a cascata di partecipazioni statali o, ripeto, alla vicenda degli immobili pubblici.

 

[A. Marulo] Non ritiene che questo modo di procedere sia ancora presente? Basti pensare alle notizie dell’aumento del numero dei dipendenti pubblici, nonostante il reiterato blocco delle assunzioni in molti settori della Pubblica Amministrazione.

 

Purtroppo è così, mentre dall’altra parte i ricercatori universitari o i professori di prima e seconda fascia sono le categorie in questi anni più bistrattate in cui le assunzioni sono rimaste bloccate. Ciò dimostra come la situazione sia ancora oggi ricca di contraddizioni.

 

[A. Marulo] Tornando alle cose che in qualche modo toccano l’operato del governo, sul quale mi pare è pronto a sbilanciarsi, diversamente da quanto intende fare, invece, sul futuro programma dell’Ulivo, quale giudizio dà del piano di salvataggio dell’Alitalia?

 

L’ultimissima strada intrapresa sembra sia quella giusta. Il vero problema è che la vicenda Alitalia ha insegnato che in Italia si riescono a fare le cose soltanto sotto la minaccia di portare il mattino seguente i libri in tribunale. In fondo anche Maastricht è stato questo: l’Italia era sulla soglia del tribunale fallimentare, solo allora nel paese c’è stato un bagno di umiltà e consapevolezza collettiva che ci ha consentito di venir fuori dal baratro. Per l’Alitalia è successo esattamente la stessa cosa. Purtroppo questo modo di procedere è senza dubbio più costoso.

 

[A. Marulo] Costoso e non si sa quanto efficace, alla luce anche del fatto che a differenza di quanto accadde per esempio all’azienda delle Ferrovie dello Stato, che ha affrontato il risanamento in una situazione di monopolio, l’Alitalia deve fare i conti con concorrenti sempre più agguerriti.

 

La situazione è indubbiamente appesa a un filo. Spero che questo estremo tentativo vada a buon fine. Se si dovesse nuovamente fallire non si potrà accollare nuovamente il peso delle perdite sui consumatori e contribuenti italiani. Diciamo che siamo alla campanella dell’ultimo giro.

 

[A. Marulo] E invece per la Fiat, tanto per parlare di un altro ammalato grave, è suonata la campanella dell’ultimo giro?

 

Sì, penso che la campanella sia suonata anche per la Fiat. L’impegno di Marchionne è un estremo tentativo per consentire alla Fiat di avere un futuro nell’auto.

 

[A. Marulo] Le cose comunque non vanno secondo i programmi. C’è stato anche il primo sciopero in tutti gli stabilimenti Fiat dell’éra Marchionne. I lavoratori sono preoccupati e i sindacati, in primo luogo la Fiom, hanno chiesto l’intervento del Governo, magari stile Alitalia.

 

Credo che siano abbastanza gli interventi dello Stato. Da questo punto di vista abbiamo già dato.

 

(tratto da Quaderni Radicali n.88, Novembre-Dicembre 2004)

 

 


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