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12/12/24 ore

Renzi, un anno ai nastri di partenza


  • Ermes Antonucci

Ad un anno di distanza dall'insediamento del nuovo governo, l'Italia di Renzi resta un cantiere bloccato, una Salerno-Reggio Calabria degli annunci non mantenuti. Per capirlo basta recuperare il cronoprogramma delle riforme elencato in pompa magna dal premier un anno fa: "Riforme costituzionali ed elettorali a febbraio, lavoro a marzo, P.a. ad aprile e fisco a maggio". Ebbene, a dispetto degli slogan e degli hashtag ("lavoltabuona", "italiariparte", "passodopopasso") dopo 12 mesi di governo il quadro è tutt'altro che positivo.

 

Le riforme costituzionali, dati anche i tempi fisiologici richiesti dalla Costituzione, sono ancora in alto mare, e si prestano peraltro a critiche attorno al merito delle questioni (tra tutte l'utilità democratica di un Senato "ridotto" e nominato dai consigli regionali). Va un po' meglio per la legge elettorale, il fantomatico Italicum, approvato in Senato e ora atteso alla Camera, anche se le scadenze definite da Renzi sono comunque state superate da un pezzo. Lo stesso è accaduto in tema di riforma del lavoro, prevista per il marzo scorso ma definita solo in questi giorni con il varo dei decreti attuativi del Jobs Act, dunque con quasi un anno di ritardo, e con gli effetti sulla ripresa del mercato del lavoro ancora tutti da verificare.

 

In generale, nel frattempo, si sventolano i primi timidi segnali di crescita economica, ignorando che questi sono dovuti alla particolare congiuntura internazionale piuttosto che a specifiche azioni di governo. Non è andata meglio alla pubblica amministrazione, riformata con alcuni mesi di ritardo attraverso il decreto Madia ma in realtà toccata solo marginalmente nelle sue elefantiache deficienze burocratiche (senza dimenticare la promessa della restituzione dell'intero ammontare dei debiti dello Stato alla p.a., circa 60 miliardi pagati soltanto per metà).

 

Della riforma fiscale, attesa nel maggio scorso, ancora nessuna traccia. Le imposte (così come l'evasione) restano tra le più alte d'Europa, e nulla possono fare l'una tantum di 80 euro per i dipendenti che guadagnano fino a 26mila euro l'anno e il taglio del 10% dell'Irap. Il sistema ha bisogno di una scossa strutturale, che però non arriva: è emblematico il fatto che l’esecutivo si prepari a chiedere una proroga di 6 mesi per l’attuazione della delega fiscale, perché entro il termine previsto (il 27 marzo) non ce la fa a chiudere tutti i provvedimenti attuativi.

 

Nulla anche in tema di riduzione del debito pubblico, sul quale lo stesso Renzi ha fatto più volte riferimento durante la sua scalata al Pd e, in seguito, a Palazzo Chigi. L'impresa, come notavamo pochi giorni fa, appare titanica, soprattutto per un Paese che ha vissuto e vive per buona parte di debito pubblico. Renzi l'ha probabilmente compreso, e quindi piuttosto che rottamare i grossi ostacoli che impediscono un processo concreto di revisione della spesa pubblica, ha preferito gettare nel dimenticatoio il piano redatto da Cottarelli, che va così ad allungare la lista dei commissari straordinari per la spending review straordinariamente inutili.

 

La riforma della scuola, tra le priorità di Renzi, non ha ancora visto la luce e timidi accenni giungono alle cronache soltanto in queste ore. Per quanto riguarda la giustizia, posta qualche toppa alla disumana emergenza carceri (ancora irrisolta in alcuni centri detentivi), nulla di fatto per riformare la lentissima macchina giudiziaria e per riportare l'intero sistema nell'ambito del rispetto dei più basilari principi dello stato di diritto.

 

Di temi etici, infine, neanche a parlarne: qualche accenno iniziale alle unioni civili, ma nei fatti neanche una discussione in Parlamento. Insomma, ad un anno dalla sua nascita, l'esecutivo guidato da Renzi mostra i limiti più evidenti nella sua concreta esperienza di governo, caratterizzata da palesi ritardi, assurde dimenticanze ed interventi solo marginali. E' da qui che, come abbiamo voluto sottolineare sin dagli inizi, bisognerebbe partire nel criticare l'operato del premier, e non da appelli di matrice politica contro una pericolosa deriva anti-democratica che, nei fatti, lasciano il tempo che trovano.

 

 


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