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01/12/24 ore

Non restare fermi all'Età del "Carbosulcis"


  • Ermes Antonucci

L’occupazione della miniera di carbone di Nuraxi Figus nel Sulcis, in Sardegna, sta conquistando grande attenzione sia dei media che della politica locale e nazionale. Circa un centinaio di minatori, dei 463 totali, protesta a 370 metri di profondità per convincere il Governo a sbloccare il progetto di rilancio della galleria destinato a riconvertire l’ultima miniera di carbone rimasta in Italia in una centrale che produca energia elettrica attraverso lo stoccaggio di anidride carbonica nel sottosuolo.

 

Già negli anni ’50 era chiara a tutti l’antieconomicità dell'utilizzo del carbone sardo, ritenuto di scarsa qualità per l’alto contenuto di zolfo, tanto da palesarsi l’avvio di una lenta crisi del settore. La miniera fu così affidata prima all’Enel negli anni ‘60, che decise il blocco dell’attività estrattiva, ritenuta, nemmeno a dirlo, anti-economica, poi all’Eni negli anni ’80.

 

Dal 1982 al 1988 le uniche attività svolte dalla Carbosulcis furono di manutenzione dei cantieri, in vista di una ripresa che arrivò solo dopo l’occupazione dei pozzi del 1984 e moltissime manifestazioni che portarono alla legge mineraria del 1985, che stanziò 505 miliardi di lire per la riattivazione del bacino del Sulcis. La situazione, sempre precaria, portò ad altre due occupazioni della miniera, nel 1993 e nel 1995. Sempre nel 1995 Carbosulcis fu messa in vendita e destinata agli investitori privati, ma l’asta andò deserta, e nel 1996 la Regione Sardegna acquisì il 100 per cento delle azioni dall’Eni, con lo scopo di avviarla verso una privatizzazione mai avvenuta.

 

Oggi il carbone prodotto da Carbosulcis, che per l’elevata quantità di zolfo deve essere miscelato con altri tipi di carbone, viene venduto alla centrale Enel di Portovesme, che funziona solo al 30% della sua capacità produttiva. Dal 1996 si stima che, per evitare la chiusura dell’attività, dalle casse della Regione Sardegna siano usciti circa 600 milioni di euro, di cui 35 milioni solo l’anno scorso.

 

Come se non bastasse, nonostante i soldi pubblici, la Carbosulcis ha chiuso il 2011 con una perdita di 25 milioni di euro. Insomma, come ha dichiarato Mario Crò, segretario della Uil del Sulcis, “i proventi della vendita all’Enel del carbone non bastano a compensare i 30 milioni di euro che ogni anno ci mette la Regione, perché ammontano soltanto a 9 milioni”.

 

Il fallimento della miniera di Nuraxi Figus è, dunque, evidente da mezzo secolo. Tuttavia ancora oggi si fatica a trarne le dovute conseguenze. Gli operai e i sindacati, hanno come obiettivo la riconversione della miniera ad una moderna stazione cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica (CSS), ed entro il 31 dicembre prossimo la Regione dovrà indire un bando internazionale per la realizzazione dell’impianto. Costo dell’opera 1,6 miliardi di euro, ovvero 200 milioni per 8 anni, finanziati dalla bolletta.

 

Di fronte a questo scenario, qualcuno non ha potuto nascondere la propria perplessità. Il sottosegretario allo Sviluppo Economico, Claudio De Vincenti, ha spiegato: “Per come ci è stato presentato il progetto di riconversione della miniera di Nuraxi Figus per lo stoccaggio di anidride carbonica nel sottosuolo non sta in piedi. Non sta in piedi perché costerebbe alla collettività 250 milioni di euro l'anno per otto anni. Quasi 200 mila euro l'anno per ogni minatore. E' una spesa insostenibile e quindi bisogna trovare il modo per renderla sostenibile”.

 

Il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, dopo aver ricordato che “era molto difficile già nel 1995 continuare a sostenere in quell'area uno sviluppo industriale basato sul carbone”, riguardo la riconversione ha affermato che “il contesto non sembra essere favorevole allo sviluppo di un'iniziativa di questo tipo, che va invece considerata dal punto di vista tecnologico e da quello economico”.

 

Intanto, la lotta dei minatori continua. Una battaglia dal sapore nostalgico che, fatta salva la generosità dei minatori, sembra più mirata a tenere viva la fiammella di una cultura di sindacalismo operaista piuttosto che mirata a dare uno sbocco, non solo ai 463 addetti, ma una intera area che rischia di pagare in modo drammatico questa situazione.

 

In altre parti del mondo si sono realizzati in questo settore piani di riconversione, che per l’industria pesante è ovviamente molto più difficile, che hanno consentito la difesa del posto di lavoro e il rilancio di intere aree, ma su progettualità diverse.

 

Le miniere della regione Nord-Passo di Calais, ci ricorda france.fr, il sito ufficiale della Francia sono divenute, con tutti gli effetti collaterali sul piano del turismo, un bene culturale che rappresenta una testimonianza reale “della ricerca di un modello di città per i lavoratori dalla metà del XIX secolo fino al 1960 e illustra un periodo importante nella storia dell’Europa industriale”. E questo dopo anni di lavoro in questa direzione, fino a divenire il 38° bene francese iscritto nel al Patrimonio Mondiale dell’Unesco in quanto “paesaggio culturale evolutivo e vivente”.

 

Non si tratta solo del riconoscimento ad un mondo scomparso, ma un modo con cui, dopo molti anni di sfruttamento del carbone, si può cercare un modo alternativo di salvare una memoria del passato e guardare al futuro. È solo un esempio. Si possono fare anche altre ipotesi su cui lavorare, a meno che non si sostenga che il salvataggio di una enorme e morente macchina comunque assistenzialista, per decenni foraggiata dallo Stato, rappresenti una tappa fondamentale per lo sviluppo di questo Paese.


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