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28/11/24 ore

Delitti mediatici e processi indiziari, il problema è nel metodo: intervista al giudice Gennaro Francione



di Gianni Carbotti e Camillo Maffia

 

La crescente deriva giustizialista nel nostro paese è solo una conseguenza delle contraddizioni del sistema mediatico che spettacolarizza le vicende di cronaca o ci sono criticità più profonde che toccano l’ambito stesso dell’impianto processuale? Ne abbiamo parlato con Gennaro Francione, ex-magistrato e scrittore, fondatore del Movimento per il Neorinascimento della Giustizia, che da anni si batte contro il processo indiziario e per l’introduzione in ambito giudiziario di un metodo scientifico di stampo popperiano.

 

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Dott. Francione, insieme al biologo forense Eugenio D’Orio lei ha da poco pubblicato un volume dal titolo “I grandi delitti dalla A ALLA Z – alla luce della Criminologia Dinamica”  (Nuova Editrice Universitaria) in cui, oltre a rileggere i casi più noti che hanno avuto maggiore eco mediatica (Yara Gambirasio, Sara Scazzi, Melania Rea, Meredith Kercher, Elena Ceste, ecc.) alla luce di questo nuovo metodo su basi scientifiche che proponete in ambito giudiziario, esprimete una forte critica al cosiddetto “processo indiziario”. Può spiegarci alla luce della sua esperienza di magistrato e giurista cosa s'intende, nel nostro ordinamento giuridico, per “processo indiziario” e quali sono secondo lei i pericoli che costituisce per i cittadini coinvolti come imputati in un procedimento penale?

 

Da magistrato posso dire che alcuni punti dell’attuale processo mi hanno lasciato diverse perplessità: ho spesso avuto l’impressione, davanti a certe vicende, di trovarmi di fronte a un sistema processuale non solo fallace, ma proprio aleatorio. Sia chiaro: non è detto che un processo indiziario non possa portare all’identificazione di un colpevole, ma non avremo mai la certezza assoluta di avere scoperto la verità su una determinata vicenda. Da qui è scaturita la mia meditazione sul metodo posto alla base della ricerca delle prove da parte del giudice, che si è innestata su una mia vecchia passione: la filosofia. Mi sono così imbattuto nel concetto di epistemologia che è la chiave della riflessione sulla conoscenza e sul metodo scientifico da adottare per raggiungerla. Ho cominciato a chiedermi: “Ma noi magistrati quale metodo usiamo”?

 

Da qui scaturì la questione relativa all’incostituzionalità del processo indiziario, in quanto irragionevole, da me sollevata il 13 giugno del 2000 nell’ambito di un processo, quando posi apertamente il problema dell’epistemologia popperiana, ossia della necessità per cui il giudice debba farsi scienziato. Egli deve giudicare secondo uno schema prettamente scientifico per l’acquisizione degli elementi probatori, mentre attualmente in molti casi si comporta come un romanziere. Avrete notato come i processi indiziari innanzitutto portano al costituirsi di due “squadre”, due fazioni: innocentisti e colpevolisti.

 

E i media poi ci sguazzano…

 

 Non solo ci sguazzano, ma hanno tutto l’interesse ad alimentare questo stato di cose, perché certi processi basati su prove evidenti nemmeno li considerano, dato che non sono abbastanza spettacolari. 

 

Insomma, nel 2001 la Corte Costituzionale rigettò in malo modo la mia proposta affermando che in questo modo il processo indiziario sarebbe rimasto senza metodo.La verità è che il Codice Rocco, molto più scientifico, prevedeva senza mezzi termini il processo fatto per prove. Furono gli stessi giudici, accorgendosi che seguendo quei parametri c’erano secondo loro troppe assoluzioni, a inventare il criterio degli indizi “gravi, precisi e concordanti” che venne poi recepito dal Codice Vassalli.Orbene secondo il nuovo codice il criterio indiziario dovrebbe essere utilizzato solo in casi estremi: il processo si deve basare su prove certe, a meno che sussistano gli indizi di cui sopra. E, invece, il metodo indiziario è diventato dominante nel nostro sistema processuale.

 

In questo modo si lascia al magistrato una discrezionalità enorme…

 

Esatto! Diciamo pure che la discrezionalità del giudice è estesa all’infinito anche perché su qualunque sospettato un indizio si trova sempre.

 

Questo mi fa venire in mente un’osservazione fatta da voi nel libro a proposito di Alberto Stasi, implicato nel celebre delitto di Garlasco,  per cui si è giunti infine ad una condanna dopo varie assoluzioni impugnando il processo. In un caso del genere, in cui sottolineate come due corti, basandosi sui medesimi elementi, si pronunciano in maniera del tutto opposta, si dovrebbe solo per questo parlare evidentemente di ragionevole dubbio.

 

 Quando io sollevai la questione d'incostituzionalità del processo indiziario non esisteva ancora il ragionevole dubbio che fu introdotto nel 2006, ma adesso c’è anche questo nuovo elemento. Infatti se un’intera corte ha deciso per l’assoluzione come può un’altra corte, senza addurre nulla di realmente nuovo e decisivo, pronunciare una sentenza di colpevolezza? E come si può pensare che una corte superiore sia migliore, più intelligente, di quella inferiore? Per paradosso dovrebbe prevalere la corte che ha emesso una sentenza di assoluzione perché questo crea appunto un ragionevole dubbio da cui non si può prescindere. Più volte anche la CEDU ha parlato di giusto processo e un processo è giusto se celebrato alla pari: tutti i cittadini devono avere un processo per prove, non è possibile che alcuni lo abbiano per prove forti e altri per prove deboli, anche perché il procedimento dev'essere equiparato a quanto prescritto dall’articolo 111 della Costituzione.

 

Quando sollevai pubblicamente la questione dell’incostituzionalità del processo indiziario mi ritrovai isolato, ma ricevetti un importante incoraggiamento da Ferdinando Imposimato. Lo  ammiravo molto e divenni suo amico: un uomo illuminato che come giudice aveva seguito casi importanti ed era stato anche senatore. Quando lo conobbi, faceva l’avvocato. Lui prese in grande considerazione le mie proposte, partecipò al mio libro “L'errore del giudice: contro il processo indiziario” che presentammo insieme alla Sapienza dal Prof. Bruno; poi trasmise queste mie idee all’Università de L'Aquila, in alcuni master in Svizzera, e scrisse altri libri sul tema sia con me che per conto suo. Fu proprio lui in seguito, a causa delle nostre riflessioni ma anche per via di alcuni casi di cui si era occupato e che lo avevano indignato, a propormi l’idea, che tuttora sto cercando di portare avanti, di una “Tavola delle Prove Legali”.

 

In pratica bisognerebbe creare una griglia attraverso cui incanalare la decisionalità dei giudici. Per fare qualche esempio: la confessione senza riscontro non è sufficiente;  sono necessari almeno due testimoni (il vecchio “unus testis, nullus testis”); le intercettazioni servono per individuare una via d’indagine, ma di per sé non costituiscono una prova; occorre ritornare all’antico principio del “favor rei”, per il quale nel caso di dubbio bisogna pronunciarsi a favore dell’imputato; divieto della “reformatio in peius”, ossia divieto del giudice di appello di riformare la sentenza di primo grado irrogando una pena o una misura peggiori delle precedenti…

 

Insomma, io ho creato questo guscio, poi c’è Eugenio D’Orio che si occupa di biologia forense e mi ha aiutato nella stesura di quest’ultimo libro, oltre al collega Luigi Bobbio il quale è molto convinto di queste tesi, in particolare per quanto riguarda l’uso delle intercettazioni telefoniche; ci sono altri che si occupano d’informatica giudiziaria, neuroscienze, tutta una serie di competenze scientifiche da inserire in questa Tavola delle Prove Legali, una griglia rigorosa su base popperiana  cui i giudici dovrebbero attenersi nei processi.

 


 

A questo proposito negli anni recenti, specie sull’onda della forte attenzione mediatica relativa ad alcuni processi, il pubblico si è convinto che la prova del DNA costituisca di per sé un elemento probatorio definitivo, schiacciante, di condanna: una sorta di regina delle prove. Voi sostenete un punto di vista diverso in merito, dato che secondo il metodo della Criminologia dinamica da voi proposto la prova del DNA non è di per sé sufficiente per emettere una condanna, ma dev'essere corroborata da una serie di altri elementi, giusto?

 

Proprio così, bisogna accertare tutta una serie di circostanze relative a un fatto. La criminologia dinamica richiede la risposta rigorosa ai quesiti: “Quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando”, una locuzione latina tratta da un passo di Cicerone citato anche da San Tommaso d'Aquino nella sua “Summa Theologiae”, che tradotta lettCicerone, eralmente significa “chi, che cosa, dove, con quali mezzi, perché, in qual modo, quando?”, nella quale sono contenuti i criteri da rispettare nello svolgimento di una composizione letteraria: considerare cioè la persona che agisce (quis); l'azione che fa (quid); il luogo in cui la esegue (ubi); i mezzi che adopera nell'eseguirla (quibus auxiliis); lo scopo che si prefigge (cur); il modo con cui la fa (quomodo); il tempo che vi impiega e nel quale la compie (quando).

 

Agli elementi tradizionali ho aggiunto il "quantum", l’elemento quantitativo che può diventare anche qualitativo come nel caso della quantità di DNA. Per esempio, nel caso di Bossetti su Yara innanzitutto bisognerebbe dimostrare che non c’è stata contaminazione: elemento paradossale, praticamente impossibile da accertare viste le circostanze del ritrovamento e lo stato di deterioramento del cadavere. Ma anche prendendo per assunto che quel DNA sia suo, qualcuno mi deve spiegare perché, essendo state ritrovate tracce di numerosi altri soggetti, dev’essere stato per forza lui l’assassino e non uno degli altri? Il DNA di Bossetti potrebbe essersi depositato in molti altri modi.

 

Come avevamo rilevato in un altro articolo infatti, volendo a tutti i costi escludere qualunque possibilità di contaminazione della scena del crimine e ipotizzando un sicuro collegamento di Bossetti col cadavere, perché escludere che quest’ultimo non abbia aiutato l’assassino o gli assassini a trasportarlo, occultarlo o - per quanto possa essere un pensiero ripugnante – non si sia imbattuto successivamente nei resti della ragazza compiendo un atto di necrofilia? Stiamo parlando di una possibilità turpe, innominabile, ma comunque diversa dall’omicidio…

 

 Mi avete anticipato! In effetti non avevo pensato a questa possibilità della necrofilia, ma sarebbe plausibile. Pensavo invece all’occultamento di cadavere, che è anche un’ipotesi di reato residuale, applicata per esempio a Michele Misseri nel caso di Avetrana, visto che non si poteva stabilire in base agli indizi se Sarah Scazzi l’avesse ammazzata lui (e tanto meno la moglie o la figlia, secondo me).

 

Anche se lui tecnicamente era un reo confesso…

 

 E questo rientra proprio nei principi di cui parlavamo: ogni dichiarazione, ogni chiamata in correità, ogni testimonianza, anche ogni confessione, richiedono riscontri inequivocabili. Infatti nel caso di Misseri sono andati a verificare i fatti e non coincidevano con quanto da lui dichiarato. Lo stesso vale per il caso di Erba, che è stato seguito da Eugenio D’Orio, e in cui le confessioni degli indagati non coincidevano con le dinamiche dei fatti.

 

Neanche la confessione è la regina delle prove: la regina delle prove non esiste. Solo mediante una tavola che funzioni come una griglia, un setaccio rigorosissimo delle prove, si può pensare di arrivare ad un verdetto degno. Questo per quanto riguarda la parte “costruens”, la parte costruttiva secondo il metodo baconiano, che mi fu suggerita da Imposimato e che io sto costruendo insieme ad altri magistrati, avvocati, scienziati forensi, addetti ai lavori.

 

Ci tengo anche a dire un’altra cosa: il Codice Vassalli secondo me è proprio fallimentare, perché ha creato un predominio assoluto dei procuratori. Il GIP è ininfluente - infatti lo chiamano “giudice-sogliola” - quindi in pratica è tutto in mano ai procuratori e alla polizia giudiziaria (vedi il caso Bossetti), che spesso operano sui reperti senza possibilità per la difesa di un reale contraddittorio come previsto dall’art. 111 della Costituzione. E noi dovremmo andare avanti per fede nella bontà assoluta del loro operato? Io propongo piuttosto di ricreare il Giudice Istruttore: è lui che deve condurre le indagini, avvalendosi di un istituendo Servizio nazionale di scienziati forensi che saranno assolutamente neutri, perché mentre polizia e pubblico ministero cercano dei colpevoli, loro dovrebbero cercare la verità e il processo dovrebbe essere anticipato a ridosso dei fatti, già in fase istruttoria come si faceva prima, non in dibattimento.

 

Da una parte interverrebbero il PM e la polizia giudiziaria come parte accusatrice e dall’altra il difensore con un consulente, anche pro ignoto, per equilibrare il tutto. Riteniamo che con questo approccio metodologico si potrebbe eliminare la Cassazione: resterebbe e sarebbe sufficiente l’appello. Questo è un po’ il quadro completo della rivoluzione strutturale da me proposta.

 

Il vostro testo si concentra particolarmente, anche nell’esame scrupoloso dei vari casi riportati, sul rapporto media/giustizia e sulle sue conseguenze: quanto pesa a vostro parere la pressione esercitata da questa relazione problematica sull’esito dei processi?

 

Pesa moltissimo, anche perché l’eco dell’interesse popolare per certi casi viene moltiplicato all’infinito e diciamolo: un caso anche importante e controverso se non attira l’attenzione della gente finisce là, non fa storia. Invece l’insistenza su alcuni casi particolari che diventano processi mediatici influenza i giudici, eccome! Prima di tutto influisce sui giudici popolari: mi risulta addirittura che, riguardo a un certo processo, uno fra questi avesse già espresso il suo convincimento colpevolista nei confronti dell’imputato su un gruppo social…

 

Un gruppo su Facebook intende?

 

Sì, certo, e ciononostante è stato chiamato in aula, naturalmente all’insaputa dei giudici. Nei paesi anglosassoni, ad esempio, c’è molto più rigore, perché il collegio giudicante viene tenuto completamente estraneo ad informazioni di questo tipo. Questo per quanto riguarda i giudici popolari, ma anche i togati possono essere influenzati. Noi abbiamo casi di magistrati coraggiosi che hanno pagato con la carriera l’aver giudicato secondo coscienza: penso ad esempio al caso di Meredith Kercher e al giudice Hellmann che assolse Amanda Knox e Raffaele Sollecito e che sentì l’avversione dei colleghi, dell’ambiente di lavoro, tanto da dover andare in pensione anticipata.

 

Ma esistono altre vicende simili, come quella del procuratore Piero Tony, impegnato nel caso del Mostro di Firenze – il quale ha scritto un libro, “Io non posso tacere”, che abbiamo presentato insieme al mio “Temi Desnuda” all’eremo di Agliati – e invischiato in una lotta tra procuratori. Medesima sorte nello stesso processo anche quella di Francesco Ferri, presidente della Corte per aver osato assolvere  Pacciani, anche lui autore di un libro sulla sua esperienza (“Il caso Pacciani”). Entrambi se ne sono dovuti andare e raccontano incredibili storie di isolamento, di colleghi che hanno tolto loro il saluto… altro che giustizia!

 

Una cosa imprescindibile per riformare la giustizia è la separazione delle carriere perché i PM non di rado esercitano pressioni forti, sposano delle tesi e pensano di perdere la faccia se il poveraccio di turno, strombazzato dai media come autore di un grande delitto, verrà assolto.

 

Per amore del paradosso tempo fa ho scritto su Facebook che tra un po’ chiuderanno i tribunali e i processi li faranno direttamente i “mediamen” dei reality criminal shows! Anche perché, se osi dire una parola a favore del grande indiziato, ti scatenano subito tutto il pubblico contro. Io me li ritrovo sui social che mi attaccano, figuriamoci la pressione che può subire un giudice se assolve Sollecito, la Knox  o Pacciani. I processi mediatici hanno una potenza assurda, occupano percentuali impressionanti dei nostri palinsesti, basta accendere la radio o la tv ad un orario qualsiasi per verificarlo. E secondo me questo continuo martellamento potrebbe causare anche degli “omicidi per induzione” perché in qualche modo rendono questi cosiddetti “mostri” dei personaggi, quasi eroici se sono stati loro a uccidere, e possono ispirare emulazione in qualcuno ad ammazzare la moglie o l’amante per risolvere i suoi problemi personali.

 

Non parliamo dei casi di persone scomparse, come quelli che trattiamo nel libro di Guerrina Piscaglia, di Roberta Ragusa ed altri, in cui gli omicidi (e le relative condanne) li hanno inventati i programmi televisivi a forza di sollevare dubbi e fare illazioni fondate sul nulla, senza prove. Mi sono sempre chiesto a tal punto: perché non aprire un fascicolo per omicidio in ogni caso di scomparsa indiziando il marito, il fidanzato, l’amante con cui la svanita nel nulla ha litigato nell’ultimo periodo? La verità in questi casi è nel brocardo: “nullum crimen, sine corpore”. Senza il corpo non è possibile stabilire se la persona sia morta e chi l’abbia uccisa, come e perché. Sono riferiti nel libro vari casi di persone scomparse e poi riapparse vive e vegete.

 


 

Lei è tra i fondatori di un movimento denominato MOV.RIN.GIU (Movimento per il Neo-rinascimento della Giustizia), che si propone di cambiare anche il paradigma culturale che ruota attorno all’amministrazione della giustizia. Secondo lei quali sono i passi necessari da intraprendere anche da questo punto di vista per preparare il terreno a quegli interventi legislativi ormai irrimandabili nella tragica situazione nazionale, che è sotto gli occhi di tutti?

 

 A nostro parere sono necessari: l’abolizione del processo indiziario (che è il nucleo del nostro progetto di riforma); la separazione delle carriere per equiparare il peso delle parti nei processi, mentre ora la bilancia della giustizia pende drammaticamente dalla parte dei pubblici ministeri e della polizia giudiziaria; la reintroduzione del Giudice Istruttore, con un servizio nazionale forense in cui PM e polizia da un lato e difensore e consulente dall’altro diventino parti equidistanti; l’anticipazione del  giudizio in fase istruttoria, a ridosso dei fatti; l’applicazione di alcuni principi fondamentali come il divieto di reformatio in peius e l’assoluto favor rei, per cui in un caso controverso tra due possibili interpretazioni deve prevalere quella più favorevole all’imputato; l’eliminazione della Cassazione che non sarà più necessaria, facendoci guadagnare così un gran numero di magistrati; la creazione di un fondo economico importante per i difensori e consulenti in favore degli imputati meno abbienti e, quindi, più deboli; l’unificazione di tutte le magistrature, da quella ordinaria ai tribunali amministrativi; l’eliminazione dei tribunali militari.

 

Infine, la creazione di un Giudice di Quartiere e di un Giudice Web. Il Giudice di Quartiere sarebbe affiancato da un’equipe di esperti, psicologi, assistenti sociali, investigatori e difensori civici, con una funzione prevalentemente preventiva, per evitare che certe questioni nei condomini, nelle comunità o nelle famiglie diventino esplosive e si risolvano con veri e propri reati (quando ero giudice mi sono capitati molti casi del genere). Il  Giudice Web, invece, dovrebbe occuparsi di tutte le questioni relative alla rete, dalla pornografia, al cyber-bullismo. Insomma, progettiamo la creazione di giudici di prevenzione, con un compito non repressivo, ma il cui intervento può essere efficace per evitare che dei reati si consumino.

 

Altra proposta è  eliminare i concorsi ed assumere, con criteri da verificare, i nuovi magistrati tra gli avvocati che abbiano fatto almeno dieci anni di carriera e con una rotazione ogni quattro/cinque anni per evitare l’impantanamento del potere. Su tutto: la creazione della Tavola delle prove legali, che diventi legge in modo che si sappia finalmente in cosa consistono le prove e quali sono i criteri uniformi attraverso i quali i giudici devono verificarle, mettendo da parte il processo indiziario.

 

Concluderei specificando perché parlo di Neo-Rinascimento: per me il primo rinascimento della giustizia fu rappresentato dagli illuministi (penso a Voltaire che sosteneva fosse meglio mettere nove colpevoli in libertà che un innocente in carcere, a Beccaria che si batté per l’umanizzazione della pena).

 

Abbiamo parlato a lungo dei processi, ma il Movimento s’interessa anche dello smantellamento delle carceri per la creazione di un nuovo sistema che preveda la depenalizzazione su molti fronti, specie per quanto riguarda le droghe che andrebbero legalizzate, e la realizzazione di carceri a cielo aperto ipotizzando, per esempio, l’utilizzo di isole per la detenzione, senza più  trattare gli esseri umani come bestie serrate in gabbia.

 

Se il primo Rinascimento è stato rappresentato dagli illuministi, il nuovo sarà rappresentato dagli epistemologi illuministi che riprendono la via di Voltaire e Beccaria cercando di attualizzarla, modernizzarla e fraternizzarla. Queste per me sono le chiavi per una Rivoluzione della Giustizia. Una rivoluzione netta che si contrapponga alle tante pseudo-riforme che si sono susseguite negli anni. Spesso sono solo provvedimenti gattopardeschi in cui si fa finta di cambiare piccole cose per mantenere intatta la sostanza di una giustizia antiquata e ingiusta.

 

 


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