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04/12/24 ore

"TEL AVIV the WHITE CITY”


  • Giovanni Lauricella

Proprio in questi giorni in cui Israele è messa sotto accusa da una massiccia campagna mediatica  che ha creato, in modo unilaterale, tanto sgomento nell’opinione pubblica mondiale per i fatti di Gaza, al Maxxi, pochi giorni fa, alla chetichella, solo per una selezionata lista di invitati, è stata inaugurata "TEL AVIV the WHITE CITY”, una mostra d’architettura che esalta la bellezza della più importante capitale mediorientale come a non voler urtare la suscettibilità di coloro che sono contro lo stato Sionista.

 

Fino a qui niente di strano, specie per noi romani che copriamo i capolavori dei musei per non offendere la comunità islamica. Infatti, non è di questo che voglio parlare ma di come una civiltà costruita sulla negazione dell’immagine paga pesantemente tale presupposto, rilevandone la contraddizione. Furono già i fondatori di Tel Aviv che vollero rifarsi alla Bauhaus, al punto che la parte vecchia della città altro non è che l’espressione dell’architettura più futurista che si conosca, aggiungendole un valore di spettacolarità unico nel suo genere, frutto della collaborazione di tanti architetti ebrei costretti a fuggire dal nazismo.

 

Da considerare che molto turismo desideroso di conoscere lo stile della Bauhaus va in Germania che se anche ha visto la nascita e l’affermarsi di tale architettura non ha una vera e propria città in questo stile perché molto fu distrutto durante la seconda guerra mondiale, come invece può vantare di avere Tel Aviv con  oltre seicento stabili censiti ufficialmente (anche se limitatamente al centro storico) che dal 2003 sono entrati a far parte del Patrimonio UNESCO. Un discorso noto agli specialisti ma che è estraneo alle mete turistiche culturali perché è vissuto da Israele senza dargli un sufficiente peso.

 


 

Come mai un fenomeno culturale di così vasta portata viene sottaciuto? Qui entrano in gioco varie dinamiche volutamente nascoste che non vengono affrontate dalla cultura israelita perché acuirebbe contraddizioni difficili da sanare. Esaltare la Bauhaus potrebbe lasciar dire alle male lingue che gli ebrei non hanno originalità culturale, che molto attingono da altri popoli ecc.

 

Non solo, fra i tanti altri argomenti che non sto ad elencare, come ho già detto prima, non fa parte della cultura degli ebrei l’estetica che forse in questo caso, per ipotesi utopistica, sottrarrebbe ostracismo da parte dei paesi confinanti. Strano a dirsi per dei professionisti che hanno brillato nel campo delle costruzioni come i migliori architetti del mondo.

 

 

A tutt’oggi quando si parla della migliore architettura contemporanea vengono subito in mente nomi ebrei come Richard Meier, Frank Gehry, Daniel Libeskind ecc.  ecc.  e non aggiungo quelli dell’arte e i professori più riconosciuti nel mondo perché a volerne nominarne qualcuno farei una figuraccia per quanti non ho incluso nella lunghissima lista che avrei da fare, mi limito solo a dire che White City è tra le mostre “Gli architetti di Zevi. Storia e controstoria dell’architettura italiana 1944-2000”; Bruno Zevi grande personaggio di dimensioni mondiali non che storia del Partito Radicale.

 

Eppure la distanza che hanno con quello che fanno e che li rende famosi è abissale e lo dimostra il fatto che Tel Aviv non affascina più di tanto, White City vox populi, città bianca nel senso di algida, freddezza che non comunica attrazione nell’area mediorientale. In questo gli israeliti sono sinceri aniconici, proprio come la religione esige, sembra assurdo che i più abili professionisti dell’immagine, quelli che ci campano sopra meglio di tutti, sono restii a proporsi in quello che è la loro capitale, un’abnegazione vissuta confessionalmente, cioè al di fuori di quello che l’estetica rappresenta.

 


 

Dico tutto questo perché a fronte di questa dicotomia culturale strabilia la mostra curata da Nitza Metzger Szmuk, un allestimento ragguardevole di cento foto, schizzi, plastici, video; un percorso che fa rivivere gli anni ’20 e ’30, con la Liebling House che nel 2019 diventerà la sede del centro di ricerca sulla "Città Bianca” e Rubinsky House dell’architetto Lucian Korngold, tante foto di capolavori di Patrick Geddes, Gropius, Le Corbusier e Erich Mendelsohn, per dirne alcuni. 

 

Progetto urbanistico ottenuto spianando dune di sabbia per edificare modernità nei vari stili; fu così per Patrick Geddes, Genia Averbuch, un grande impegno per rappresentare il meglio dell’architettura occidentale che si conosceva compreso le arcate simili a quelle metafisiche di Sabaudia e Latina di Ya’acov Shiffman la dove non c’era nulla di paragonabile.

 


 

«Questa mostra, a cui abbiamo lavorato due anni, è per noi un modo per far conoscere un Paese e la sua cultura, frutto di scambi e di apporti da tutto il mondo. – spiega l’addetto culturale dell’Ambasciata d’Israele Eldad Golan - Tel Aviv è la prima città ebraica emersa dalle dune lungo la costa del Mediterraneo. È stata concepita per essere moderna e contemporanea e cosmopolita. E’ questo che la rende unica».

 


 

Nelle pubblicazioni d’epoca si sfogliano pagine dedicate all’architettura e allo stile di Tel Aviv: «Allora sembrava un mondo così lontano, ed è impressionante come già in quegli anni la città fosse sulle pagine dei giornali e delle riviste europee, proprio come oggi. – conclude la curatrice – Oggi come ieri l’architettura di Tel Aviv, con i suoi edifici e i grandi boulevard, trasmette un senso di libertà, ottimismo, e questo resta per sempre». 

 


 

"TEL AVIV the WHITE CITY

Centro Archivi Architettura
promossa dall’Ambasciata di Israele in Italia in collaborazione con il MAXXI,

in occasione dei 70 anni dalla nascita dello Stato
a cura di Nitza Metzger Szmuk

dal 16 maggio al 2 settembre 2018

MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo

via Guido Reni 4a, Roma

 

 


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