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29/11/24 ore

Pd, il programma economico di Stefano Fassina: dubbi e perplessità


  • Luigi O. Rintallo

 

Stefano Fassina è il responsabile Economia del Pd: secondo gli osservatori rappresenterebbe l’anima “socialdemocratica” del partito, pronta a collegarsi con le strategie degli altri partiti socialisti in Europa (Spd e socialisti francesi) per dare una risposta alla crisi “da sinistra”. Nell’intervista al «Foglio» del 9 agosto, ha esposto i punti essenziali di un programma di governo che ha il merito, se non altro, di essere chiaro nell’ispirazione di fondo.

 

Cosa afferma Fassina? Il liberismo degli anni ’80, che mosse i suoi passi con Margareth Thatcher e Ronald Reagan, ha perduto la sua spinta propulsiva e ci ha portato alla crisi attuale. Ora è il momento di recuperare, ridando fiato a politiche keynesiane di intervento pubblico e di contrasto alla globalizzazione finanziaria.

 

Di per sé l’impostazione non manca di ragioni, ma lascia perplessi che ciò valga anche per l’Italia: nel nostro Paese infatti di “rivoluzioni liberali” non si è vista traccia, essendo rimasto ben ancorato a quella zona grigia che prende il nome di Italia dell’Est a sottolineare una prevalenza dello statalismo burocratico che non ha eguali altrove. È questa realtà che Fassina mostra di trascurare e lo si comprende anche nella lettura più attenta dei punti programmatici elencati nell’intervista.

 

A suo merito, va detto che esse muovono dalla rimozione di alcuni provvedimenti presi in passato proprio dalla coalizione di centro-sinistra quando ha governato (1996-2001 e 2006-2008). È il caso della riforma del Titolo Quinto della Costituzione, approvata sotto il governo Amato del 2001. Secondo l’esponente del Pd, essa va “rivoluzionata” così da restituire “ai governi la possibilità di legiferare davvero in materia di politica industriale ed energetica, cosa che oggi con questo federalismo pasticciato che ci ritroviamo non è possibile”.

 

Si dà il caso che il “federalismo pasticciato” è il risultato di una scelta operata a suo tempo dal centro-sinistra, che approvò a maggioranza semplice la riforma costituzionale poi confermata da un referendum che vide una ridottissima partecipazione popolare.

 

Quello che fa emergere dubbi nelle proposte economiche avanzate è la tendenza a far conto nuovamente sul ricorso al debito pubblico come strumento per favorire la crescita. Se c’è una cosa che dovrebbe essersi capito è che, per non trovarsi nei guai, per prima cosa non vanno fatti debiti. Anche perché essi pregiudicano il futuro e costituiscono zavorre caricate sul groppone delle generazioni future, le quali come dicono più segnali non sono nelle condizioni di reggerlo.

 

Né sembra plausibile che il debito possa essere tranquillamente riciclato in eurobond della Banca europea investimenti. Non a caso Francesco Boccia, deputato pd dell’area riformista, si domanda quando si riuscirà “a capire che questa crisi globale va affrontata separando rigorosamente finanza ed economia” («Il Foglio», 10 agosto).

 

Fisco e welfare sono gli altri due aspetti del programma di Fassina che meritano qualche ulteriore osservazione. Manca del tutto la percezione che la lotta all’evasione va strettamente connessa a una riduzione del carico fiscale: meno tasse significa crescita delle entrate e non il contrario. Di questo è convinta larga parte degli studiosi di economia e non soltanto qualche esaltato.

 

Se è apprezzabile l’intento di limitare il carico fiscale su lavoro e impresa, lo è meno l’ennesima proposta di una patrimoniale che servirebbe soltanto ad allontanare ancora una volta i capitali dal Paese, senza nemmeno lontanamente conseguire quegli obiettivi di giustizia sociale che si prefigge.

 

Alquanto reticente Fassina si dimostra sul piano della riforma del welfare, che è divenuto da tempo il luogo del rancore sociale con le sue prestazioni a chi non le merita e i ritardi e le farraginosità di procedura per quanti, invece, davvero hanno bisogno.

 

Per non parlare poi del vuoto assoluto circa i cambiamenti da apportare nell’ambito della contrattazione di lavoro: le rigidità nelle assunzioni come pure il permanere di contratti collettivi, utili oggi più al potere auto-referenziale delle burocrazie sindacali che non ai lavoratori, sono due questioni che avrebbero meritato una presa di posizione più coraggiosa.


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