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02/12/24 ore

“Dei delitti e delle Pene”, 250 e non sentirli (purtroppo)


  • Antonio Marulo

Il 28 novembre del 1794 moriva Cesare Beccaria. Quest’anno la ricorrenza coincide con il 250esimo dalla pubblicazione “Dei delitti e delle Pene”: la cifra rotonda si presta più che mai, attraverso convegni e pubblicazioni, alle commemorazioni e alle riflessioni sulla figura dell’italiano “più citato, insieme a Niccolò Machiavelli, nella storia del pensiero occidentale per la filosofia, il diritto e la scienza politica”.

 

Questa volta, però, i motivi per ricordare si arricchiscono di un elemento fondamentale: la straordinaria attualità dell’opera dell’illustre giurista-economista e filosofo, che "pose le fondamenta per la scienza criminalistica moderna", allineando il "diritto penale ai diritti dell’uomo".

 

 Ciò che scrisse Beccaria, pubblicato in una prima edizione anonima a Livorno nel 1764, vale infatti ancora oggi, come ha sottolineato Paola Severino, nel corso dell’interessante seminario Giustizia ed Economia Politica – L’eredità di Cesare Beccaria, organizzato dall’Aspen Institute in collaborazione con l’Istituto dell’Enciclopedia italiana e Il Sole24Ore Domenica. Si pensi ai concetti di pena come elemento deterrente e di prevenzione e non punitivo o di repressione (che valse al libro la messa all’Indice), quale estrema ratio in luogo di misure alternative; si pensi al concetto di certezza della pena e di prontezza della sua applicazione; per non parlare della polemica contro la pena di morte, ritenuta “né utile né necessaria", o della presunzione d’innocenza dell’inquisito: perché “un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione se non quando deciso che egli abbia violato i patti con i quali gli fu accordata”.

 

Beccaria "seppe cogliere il suo tempo", sintetizzandone la “fioritura delle idee innovative”, in uno stile da molti definito rozzo, semplice, quindi fruibile a tutti facilmente. “Dei delitti e delle pene”, ebbe così un successo immenso, “esaltato dalle più alte personalità del tempo” e preso come punto di riferimento per le riforme dei codici penali, come nel caso di Caterina II di Russia. Tradotto in molte lingue, varcò l’Oceano, finendo nella mani dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America che ne trassero ispirazione per la carta costituzionale.

 

Oggi resta un manifesto, proprio in patria e nel momento in cui si dibatte di giustizia giusta e di riforma di un sistema che vede disattesi i principi cardine messi nero su bianco dall’illuminista italiano in materia di libertà personale e rintracciabili anche nell’articolo 13 della Costituzione.

 

“Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”: la definizione epigrammatica, sottolineata dal professor Emerito di procedura penale, Ennio Amodio, nel corso del seminario su citato, resta pertanto drammaticamente all’ordine del giorno, nel momento in cui si fanno i conti con le contraddizioni del nostro sistema di esecuzione della pena che aspetta da anni una riforma organica e di struttura.

 

A parole ne sono convinti tutti e gli addetti ai lavori non mancano di ribadirlo a ogni piè sospinto e alla prima occasione. Lo ha fatto anche il ministro di Giustizia Andrea Orlando nel suo soporifero intervento al seminario dell’ Aspen, ribadendo la convinzione che misure emergenziali non servono e non risolvono il problema. Piuttosto bisogna “incidere strutturalmente”. A tal proposito il Guardasigilli ha annunciato che nel 2015 ci saranno gli Stati generali sul Carcere: “per valutare ciò che si è fatto e ciò che si deve fare”.

 

Insomma, di fronte a una “prepotente urgenza”, stiamo ancora – chiacchiere a parte – a Caro amico

 

 


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